Attore, drammaturgo, comico e studioso di teatro, Andrea Cosentino il 16 marzo presso il Teatro di Ca’ Foscari a Santa Marta ha presentato all’interno de “Il teatro delle lingue” il suo monologo “Angelica”, di cui ha discusso con il pubblico in un incontro curato dal Prof. Paolo Puppa.

Con lo spettacolo Primi passi sulla luna Andrea Cosentino inventa un “tempo privato”, conchiuso nella caduta del muro di Berlino e della Barbie, nella Storia e nel giocattolo. Paolo Puppa ha parlato di un’evoluzione futurista, del legame con il postmodernismo contenuto nelle produzioni dell’attore, che opera sulla cultura dello zapping, attraverso mutazioni di programma vertiginose.  Il Postmodernismo teatrale si inserisce nella valenza politica della sua arte povera, contestualizzata nella scatola artigianale. Gli oggetti che compaiono in Angelica, come una carrozzina e una bottiglia d’acqua, donano verità al corpo. Lo spettacolo si sviluppa in piccole postazioni materiali da circo, da un biblioteca schizofrenica. Cosentino è legato alla tradizione del clown e penetra Artaud nel sistema nervoso. A parere di Paolo Puppa, i padri di Cosentino sono Dario Fo, da cui si è ispirato per la sagoma mignon di Wojtyla, e Pier Paolo Pasolini, intellettuale che ha espresso l’incontro tra apocalisse e riproduzione televisiva contemporanee. Dario Fo provava l’orrore del tragico, operava una scelta sul registro, inneggiava all’ abdicazione, mentre Pasolini provava un’ossessione verso il tragico. Secondo Puppa la mediazione tra di loro è rappresentata dallo spazio. Se Fo incarna un’istanza pittorica, tenendo conferenze su pittori, pronunciando le battute pensando ai quadri, Pasolini concepiva il tema dello spazio come immagine rispetto al corpo, essendosi applicato allo studio della pittura con Roberto Longhi. Andrea Cosentino in Angelica opera una pittura dello spazio, attraverso le sequenze slabbrate e maniacali della telenovela. Cambia il rapporto di prossemica con lo spazio; Barbie e Big Gym sono ipotiposi. Quello di Cosentino è un personaggio ridotto, che si volta di spalle e compie giochi ridanciani. L’attore e drammaturgo abruzzese porta l’afasia in se stesso, si esprime con balbuzie, attraverso la ripetizione, la trasformazione in divertissement, una comicità tardo-futurista in lotta con lo zapping; applica la citazione di Macbeth al caso Erba (ambedue stragi di vicini rumorosi). Il suo gioco somiglia a quello semplificante e femminino di Saverio La Ruina, che interpreta la figura femminile come maschio. I suoi spettacoli sono sceneggiati filtrati con tempi sovrapposti e stratificati, matrioske del tempo, una mise en abyme che subisce uno spostamento nel surreale, come Cecafumo di Celestini. La messa in scena presenta una partenza realistica, si aggancia all’infanzia nella compresenza tra visibile e invisibile, in una comunicatività meta-televisiva, nel trascolorare fiabesco dal reale al magico.

“Dario Fo è stato il mio inizio come mimo, come attore monologante da cui ho incorporato pezzi di Mistero buffo, la Resurrezione, il Lazzaro, quel suo monologare nel quadro cinematografico del primo piano, del piano intero, della zoomata del viso. Per quanto riguarda l’incrocio tra Pasolini e Fo, dichiaro di aver rubato loro le capacità performative, da Pasolini il lato ideologico del pensiero e la mutazione antropologica, da Fo la capacità di inventarsi le radici, di dargli credibilità. Oggi si impara a parlare dalla televisione. Cerco di ritrovare i brandelli di realtà che si è mostrata in forma di rappresentazione. Stiamo lottando per non far sparire la cultura popolare dei dialetti, lottiamo per reinventare qualcosa. Non bisogna fare finta di essere teatro che finge di esistere, per questo cerco di trovare la verità dietro la forma di rappresentazione, tento di smontare il contagio. Il linguaggio televisivo denuncia l’omologazione. Restituisco Dario Fo denunciandolo. Cerco di smitizzare, sento il vuoto e riconosco il vero. Il Postmoderno è la nostra condizione. Smonto gli eventi mediatici, li accosto senza compiacimento e poi parlo a mia figlia. E’ il set da reality, in cui  denuncio gli ingredienti su come facciamo lo spettacolo. Postmoderno significa inserire nel testo la canzone Tintarella di luna, operare per sorpassi, in un ammiccamento continuo”.

Paolo Puppa ha espresso l’opinione che Andrea Cosentino faccia la parodia dei narratori delle radici, con la ruffianaggine, il para-aulismo di Palazzeschi e Campanile, quello stile della ripetizione, dell’esasperazione, della relazione tra storia e microstoria; ha citato attori come il sardo Giovanni Carroni, i personaggi di Davide Enia, che partono dall’infanzia con agganci alla macrostoria. Angelica si esprime in un dialetto arrotondato, è un personaggio reso interessante, epico, una persona mediocre che parla in un flusso di coscienza, da cui emergono il demenziale e il discorso libero indiretto. La sua scelta dialettale, i barbarismi, esplicano una lingua standard che mostra fragilità. Angelica è una Madonna, che davanti alla truccatrice chiede le battute a chi le sta vicino. Cosentino traccia i suoi tratti con oscillazioni di distanza, in una corrispondenza tra il trattamento drammaturgico del personaggio e gli spazi televisivi. Puppa ha affermato che l’attore fa del bunraku, il teatro di marionette giapponese, in cui il manovratore si mette in evidenza, condizione che Roland Barthes in uno studio sulla dissociazione  ha specificato come “mettere in evidenza il trucco”.  

“Io sono il doppio di Artaud e lo manovro, rendo maneggevoli i maestri. Penso che a teatro si provi una sofferenza fisica. Voglio fare arte popolare. Nel 2011 non sappiamo cosa siano arte e popolo. Eduardo reinventò la lingua per essere sul solco della tradizione. Le mie stupide voci provengono dall’italiano medio colonizzato dalla TV. Angelica funziona per digressioni; ho affitato casa mia per lo sceneggiato. Ho cercato di esprimere l’irrappresentabilità della morte. Il montaggio è un espediente per rappresentare l’irrappresentabile”.

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